Nel 52 a.C. Vercingetorige fu il nemico di Cesare: si pose a capo della rivolta pressoché totale della Gallia contro il proconsole romano, una ribellione che fu causa di mille difficoltà e si risolse con la sconfitta di Alesia (che, tuttavia, fu tutt’altro che netta). Le fonti antiche forniscono informazioni assai scarse su di lui. Prima fra tutte è il VII libro del De Bello Gallico di Giulio Cesare: la sua attendibilità è stata piú volte discussa, non tanto per ciò che riguarda gli eventi narrati (troppi erano i testimoni perché Cesare potesse tacere o falsificare la realtà) quanto per l’interpretazione che delle varie vicende viene fornita. Per ciò che riguarda Tito Livio ci restano soltanto i riassunti (periochae) dei libri 107 e 108, oggi perduti. Di Strabone abbiamo solo poche frasi, peraltro scarsamente eloquenti. Piú lungo è un passo di Plutarco nella sua Vita di Cesare, nel quale la vicenda viene riferita con toni drammatici. Per il resto si conoscono un lungo brano di Floro, infarcito di errori; una notazione di Polieno, priva di qualsiasi interesse; e, infine, le cronache di Dione Cassio, che si rivela essere ben informato, e di Orose, giuntaci in una redazione quasi inintelligibile.
Chi era insomma Vercingetorige? Era un Arverno, cioè un cittadino della popolazione protostorica che occupava i territori che oggi corrispondono all’Auvergne, nel Massiccio Centrale francese. Ed è bene ricordare che, nel corso delle campagne condotte nel 125 a.C. per “pacificare” le zone centrali della Gallia, le legioni romane si erano trovate a combattere contro gli Arverni, che furono poi sconfitti nel 121 a.C. Ciononostante essi non vennero inglobati nella Gallia Transalpina, ma conservarono la loro autonomia, non senza aver accettato un trattato che imponeva comunque obblighi piuttosto pesanti. Il loro re venne esiliato in Italia, insieme a suo figlio, e fu instaurato un regime di tipo aristocratico. Sulla base di quanto tramandato da Cesare, nonché da Plutarco, il padre di Vercingetorige, Celtill, cercò di ristabilire (a suo vantaggio) il regime monarchico presso gli Arverni. Il tentativo ebbe luogo verosimilmente intorno all’anno 80. I suoi concittadini lo sottoposero a processo e lo condannarono a morte: gli aristocratici che si spartivano il potere in seno alle grandi popolazioni della Gallia non avevano alcun desiderio di “restaurazione”.
Gioielli di epoca gallica (Foto Archivio IGDA)
Ed erano rafforzati nei propri convincimenti dal fatto che le relazioni con Roma si erano considerevolmente ampliate, soprattutto sul piano commerciale: le anfore piene di vino italiano arrivavano a centinaia di migliaia, in cambio di materie prime (metalli, pelli, bestiame?) e di… schiavi. Condannando Celtill, il partito degli aristocratici, filo-romano, ebbe modo di proteggere il rango dei suoi membri, ma al tempo stesso i suoi interessi economici. Celtill venne dunque giustiziato, ma suo figlio non venne di conseguenza privato dei suoi beni, né della clientela di suo padre. E veniamo allora al figlio. Innanzitutto, qual è il significato del suo nome? Sono state proposte le etimologie piú fantasiose. L’interpretazione oggi accettata dai linguisti è la seguente: ouer, prefisso di origine indoeuropea che significa “su” o “sopra”; kingues o kinguet vuol dire il guerriero, l’eroe; riks: il re. Se ne ricava dunque Vercingetorige = Re supremo dei guerrieri.
Nel XIX secolo, alcuni storici si interrogarono circa l’eventualità che Vercingetorige fosse un titolo piuttosto che un nome proprio. Alcuni si dissero favorevoli alla prima ipotesi e scrissero perciò che «il vercingetorige era questo o quello». Il ritrovamento di monete con l’iscrizione Vercingetorix ha posto fine alla discussione (e avremo modo di tornare sull’argomento): si tratta senza dubbio di un nome proprio. Del resto apprendiamo da Cesare dell’esistenza in Gallia di due Cingetorige («Re dei guerrieri»). A quell’epoca l’assegnazione dei nomi non era ancora divenuta un fatto ordinario: nelle grandi famiglie determinati nomi venivano scelti e assegnati a neonati che si pensava fossero destinati a grandi imprese, anche se il termine riks non evoca piú, necessariamente, la forma monarchica del potere.
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