Vercingetorige Chi fu davvero il re degli Arverni?

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Gufo Astrale
00lunedì 25 ottobre 2004 21:26




Nel 52 a.C. Vercingetorige fu il nemico di Cesare: si pose a capo della rivolta pressoché totale della Gallia contro il proconsole romano, una ribellione che fu causa di mille difficoltà e si risolse con la sconfitta di Alesia (che, tuttavia, fu tutt’altro che netta). Le fonti antiche forniscono informazioni assai scarse su di lui. Prima fra tutte è il VII libro del De Bello Gallico di Giulio Cesare: la sua attendibilità è stata piú volte discussa, non tanto per ciò che riguarda gli eventi narrati (troppi erano i testimoni perché Cesare potesse tacere o falsificare la realtà) quanto per l’interpretazione che delle varie vicende viene fornita. Per ciò che riguarda Tito Livio ci restano soltanto i riassunti (periochae) dei libri 107 e 108, oggi perduti. Di Strabone abbiamo solo poche frasi, peraltro scarsamente eloquenti. Piú lungo è un passo di Plutarco nella sua Vita di Cesare, nel quale la vicenda viene riferita con toni drammatici. Per il resto si conoscono un lungo brano di Floro, infarcito di errori; una notazione di Polieno, priva di qualsiasi interesse; e, infine, le cronache di Dione Cassio, che si rivela essere ben informato, e di Orose, giuntaci in una redazione quasi inintelligibile.

Chi era insomma Vercingetorige? Era un Arverno, cioè un cittadino della popolazione protostorica che occupava i territori che oggi corrispondono all’Auvergne, nel Massiccio Centrale francese. Ed è bene ricordare che, nel corso delle campagne condotte nel 125 a.C. per “pacificare” le zone centrali della Gallia, le legioni romane si erano trovate a combattere contro gli Arverni, che furono poi sconfitti nel 121 a.C. Ciononostante essi non vennero inglobati nella Gallia Transalpina, ma conservarono la loro autonomia, non senza aver accettato un trattato che imponeva comunque obblighi piuttosto pesanti. Il loro re venne esiliato in Italia, insieme a suo figlio, e fu instaurato un regime di tipo aristocratico. Sulla base di quanto tramandato da Cesare, nonché da Plutarco, il padre di Vercingetorige, Celtill, cercò di ristabilire (a suo vantaggio) il regime monarchico presso gli Arverni. Il tentativo ebbe luogo verosimilmente intorno all’anno 80. I suoi concittadini lo sottoposero a processo e lo condannarono a morte: gli aristocratici che si spartivano il potere in seno alle grandi popolazioni della Gallia non avevano alcun desiderio di “restaurazione”.

Gioielli di epoca gallica (Foto Archivio IGDA)
Ed erano rafforzati nei propri convincimenti dal fatto che le relazioni con Roma si erano considerevolmente ampliate, soprattutto sul piano commerciale: le anfore piene di vino italiano arrivavano a centinaia di migliaia, in cambio di materie prime (metalli, pelli, bestiame?) e di… schiavi. Condannando Celtill, il partito degli aristocratici, filo-romano, ebbe modo di proteggere il rango dei suoi membri, ma al tempo stesso i suoi interessi economici. Celtill venne dunque giustiziato, ma suo figlio non venne di conseguenza privato dei suoi beni, né della clientela di suo padre. E veniamo allora al figlio. Innanzitutto, qual è il significato del suo nome? Sono state proposte le etimologie piú fantasiose. L’interpretazione oggi accettata dai linguisti è la seguente: ouer, prefisso di origine indoeuropea che significa “su” o “sopra”; kingues o kinguet vuol dire il guerriero, l’eroe; riks: il re. Se ne ricava dunque Vercingetorige = Re supremo dei guerrieri.

Nel XIX secolo, alcuni storici si interrogarono circa l’eventualità che Vercingetorige fosse un titolo piuttosto che un nome proprio. Alcuni si dissero favorevoli alla prima ipotesi e scrissero perciò che «il vercingetorige era questo o quello». Il ritrovamento di monete con l’iscrizione Vercingetorix ha posto fine alla discussione (e avremo modo di tornare sull’argomento): si tratta senza dubbio di un nome proprio. Del resto apprendiamo da Cesare dell’esistenza in Gallia di due Cingetorige («Re dei guerrieri»). A quell’epoca l’assegnazione dei nomi non era ancora divenuta un fatto ordinario: nelle grandi famiglie determinati nomi venivano scelti e assegnati a neonati che si pensava fossero destinati a grandi imprese, anche se il termine riks non evoca piú, necessariamente, la forma monarchica del potere.

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Gufo Astrale
00lunedì 25 ottobre 2004 21:28
Un eroe ragazzo
Quando nacque Vercingetorige? Quanti anni aveva nel 52 a.C.? Si tratta (in Francia!) di un problema al quale si dà grande importanza, poiché molti storici e soprattutto molti scrittori hanno voluto vedere in lui un ragazzo di 15 o 16 anni, coetaneo dunque di Giovanna d’Arco, che assume la guida della rivolta in seguito a un’ispirazione quasi divina. Tali teorie si basano su un aggettivo usato da Cesare, che di Vercingetorige dice che era un adulescens. Sappiamo però che nell’antica Roma, l’adulescentia era l’età che precedeva l’esercizio della magistratura, al quale si poteva accedere all’età di trent’anni. Nel De Bello Gallico, Cesare si serve dello stesso termine, adulescens, per Publius Crassus (il figlio del ricchissimo Crasso), al quale affidò, nel 56 a.C., il comando di una spedizione in Aquitania (ovvero la regione sud-occidentale della Gallia).
Lo stesso accade per Decimus Brutus, al quale fu assegnato il comando della flotta romana in occasione delle guerre contro i Veneti. Evidentemente, questi adulescentes non sono ragazzi, ma, al contrario, avendo ai propri ordini truppe di parecchie centinaia d’uomini, si deve presumere che fossero uomini già dotati di notevole esperienza. Servendosi dell’appellativo di adulescens, Cesare vuole dunque farci comprendere che Vercingetorige non aveva ancora rivestito alcuna carica politica e che doveva avere poco meno di trent’anni. Quanti con esattezza non potremo mai saperlo, ma possiamo certamente sgomberare il campo dall’idea di un giovinetto ispirato dagli dèi, che miracolosamente si erge a difensore delle sue terre per scacciare dalla Gallia i malvagi invasori venuti da Roma! Altra questione, di non minore importanza: quali furono, nel 52 a.C., le relazioni tra Vercingetorige e Cesare? A questo proposito Cesare tace, ma possiamo disporre di due testimonianze, quelle di Cassio Dione e di Orose che, entrambe, non soltanto parlano di un’«amicizia» fra i due, ma raccontano che il primo aveva preso l’iniziativa di «rompere l’accordo» (tra Roma e gli Arverni), rendendosi colpevole magni sceleris, cioè di «un crimine immenso».

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Gufo Astrale
00lunedì 25 ottobre 2004 21:30
Un tradimento imbarazzante
Nel III e nel V secolo d.C., molto tempo dopo lo svolgersi di quegli eventi, non c’era ragione da parte dei due autori di inventare l’episodio. D’altro canto, perché Cesare non accennò mai a questo «tradimento»? La risposta si può forse individuare nel fatto che, diversamente, gli sarebbe toccato di spiegare al Senato i motivi per i quali i suoi alleati piú fedeli avevano scelto di abbandonarlo. Vercingetorige fu dunque al fianco di Cesare per buona parte della guerra condotta contro i Galli, forse fin dal suo inizio. A quale titolo? Verosimilmente in qualità di capo del contingente arverno, un reggimento di cavalleria che il proconsole aveva dovuto requisire in virtú del trattato. Si può anche ipotizzare che fosse uno dei contubernales («compagni di tenda») scelti tra i nobili romani e gallici che facevano parte dell’entourage di Cesare, che discutevano con lui e l’ascoltavano pieni di rispetto.
Una simile ipotesi, che in Francia viene ancora oggi vista come iconoclasta, scaturisce semplicemente dalla logica: come avrebbe potuto Vercingetorige causare difficoltà cosí serie a Cesare se non ne avesse conosciuto a fondo le tattiche di guerra? E infatti adottò le stesse regole del proconsole: come è narrato nel De Bello Gallico, i Galli «per la prima volta si preoccupano di fortificare i propri accampamenti». In piú, consapevole del fatto che l’approvvigionamento costituiva la preoccupazione essenziale di un generale, applicherà la strategia della «terra bruciata»; e si tratta soltanto degli esempi piú clamorosi. Ancora un paio di considerazioni sul ritratto, in questo caso, fisico. Sculture e dipinti hanno raffigurato il capo gallico con fattezze impressionanti e grandi baffi. Non si tratta altro che dei vecchi cliché diffusi da tempo, che corrispondono a quelli in voga nel IV-III secolo, resi popolari dalle opere d’arte pergamene ed etrusche e che sono rimasti ancorati al fondo dello spirito romano: i Galli hanno grandi baffi, barbe e sono uomini irsuti.

Il tutto in palese contrasto con le rappresentazioni piú recenti, che ci mostrano immagini di uomini glabri e ben pettinati! Sulla stessa linea si muove Floro, il quale, nel II secolo, riprende le vecchie descrizioni quasi leggendarie: «Un uomo che il suo fisico, le sue armi e il suo carisma rendevano temibile… anche il suo nome sembrava fatto per incutere il terrore!». Né piú né meno di come avremmo potuto immaginare i Cinesi o i Brasiliani sulla scorta delle descrizioni fatte dai viaggiatori del XVIII secolo! Rimane la moneta, o, per meglio dire, le monete che recano l’iscrizione VERCINGETORIXS o VERCINGETORIXIS. Se ne conoscono 27 esemplari, tutti statere in oro con l’eccezione di due in bronzo. Si tratta chiaramente di un ritratto ben lontano dalla realtà (poiché vi sono molteplici differenze tra i diversi esemplari della moneta) ed è piuttosto la derivazione di una rappresentazione del dio Apollo, cosí come esso compariva sullo statere macedone al quale le monete degli Arverni si ispirarono fin dalle origini.

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Gufo Astrale
00lunedì 25 ottobre 2004 21:32
Contro Cesare
Sul finire dell’anno 53, al termine della sesta campagna condotta da Cesare, in seno a numerose popolazioni si produsse un importante rivolgimento politico: il loro “senato” mutò d’orientamento; i sostenitori dell’alleanza con Roma (e dell’appoggio da dare al proconsole) divennero una minoranza. Perché? Cesare, senza alcuna esitazione, tira in ballo colpi di Stato, azioni faziose, racconta di «miserabili» persi tra i debiti e senza onore (come si diceva dei sostenitori di Catilina). Sia quel che sia, Vercingetorige, che era riuscito a impadronirsi del potere presso gli Arverni e a farsi riconoscere come sovrano, diede avvio a una campagna diplomatica, stipulò numerose alleanze e preparò il suo piano di guerra. Le legioni si trovavano nei loro quartieri invernali, presso i Treviri, i Lingoni e i Senoni (ad Agedincum, la moderna Sens). Cesare era partito alla volta della Cisalpina (l’Italia del Nord). A Roma, il clima politico era estremamente agitato. Il triumvirato ufficioso messo in piedi sette anni prima (nel 60 a.C.) tra Cesare, Pompeo e Crasso era saltato: nel 54 la figlia di Cesare, Giulia, che Pompeo aveva preso in moglie, era morta di parto; l’anno dopo, nel 53, Crasso, governatore della Siria, lanciatosi contro i Parti, aveva subito una sconfitta pesantissima (ventimila morti, le aquile catturate) e trovato la morte (la sua testa, mozzata, era stata portata in trionfo a Seleucia).

In una Roma sconvolta da un simile disastro si era a un passo dall’anarchia: le bande rivali di Milone e di Clodio seminavano il panico. Il Senato concesse pieni poteri a Pompeo, incaricandolo di riportare l’ordine con ogni mezzo. Proprio in tale frangente Cesare apprende la notizia incredibile: Vercingetorige ha disertato e, insieme a lui, il popolo degli Arverni; mercanti romani sono stati assassinati a Genabum (Orléans), e si sta costituendo una vasta coalizione. In questa sede sarebbe troppo lungo narrare tutti gli eventi che si succedettero tra il ritorno di Cesare (che ebbe verosimilmente luogo nel gennaio del 52) e la resa di Vercingetorige ad Alesia (inizi del mese di ottobre): è sufficiente ricordare quanto viene narrato nel De Bello Gallico e nei molti libri che commentano le varie vicende.

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Gufo Astrale
00lunedì 25 ottobre 2004 21:34
Azioni veloci e repentine
Vercingetorige fu un condottiero responsabile dell’applicazione di una tattica nefasta per coloro che scelsero di seguirlo, un incompetente, che raggiunse il colmo della sua inettitudine facendosi “bloccare” ad Alesia e offrendo a Cesare la possibilità di assediarlo? Oggi la risposta è ben diversa da quella che non piú tardi di una trentina d’anni fa continuava a essere data, quando la sconfitta di Alesia veniva vista come una sorta di tragedia nazionale. Analizzando con un minimo di imparzialità lo svolgersi delle campagne che vennero condotte nel 52 a.C., comprendendo in tale analisi il punto di vista di Cesare, non si può fare a meno di constatare che il capo gallico portò avanti una strategia e tattiche militari intelligenti, che si potrebbero cosí riassumere: sottrarsi allo scontro diretto con le legioni (troppo forti per fantaccini gallici privi di qualsiasi esperienza), cercare di stancarle obbligandole a massicci spostamenti e lanciandosi in azioni di guerriglia contro le retroguardie, cercare di tagliare quanto piú possibile l’afflusso dei rifornimenti (fino al punto di dare alle fiamme fattorie e villaggi).

A tutto ciò s’aggiunse il tentativo di destabilizzare lo stesso Cesare, attaccando la provincia (che, per buona sorte del condottiero capitolino, rimase fedele a Roma). Ma, soprattutto, Vercingetorige scelse la strategia che viene definita come quella dell’«ascesso da fissazione» (espressione presa a prestito dal gergo militare francese) che consiste nel concentrare intorno a una postazione amica il maggior numero possibile di uomini della parte avversa per poi annientarli con un’azione portata dall’esterno. I tre grandi “assedi” portati da Cesare si spiegano con questa linea di condotta. Il primo, nel mese di aprile, fu quello di Avaricum (Bourges). Cesare, privo di rifornimenti, voleva prendere il controllo della città, che ne era al contrario piena. Il tempo era stato pessimo: faceva freddo, violenti temporali s’erano abbattuti sulle legioni. La città era naturalmente difesa da corsi d’acqua e da paludi che occupavano la zona periferica; il solo accesso possibile, e per giunta alquanto stretto, era sbarrato da un poderoso terrapieno. I legionari cominciarono a costruire opere gigantesche, per nulla fiaccati nel morale. Vercingetorige non poté attaccarli da dietro, come sperava di fare dopo averli indeboliti. Fu cosí che Cesare si impadroní della città.

Il secondo assedio fu quello di Gergovia, la capitale del popolo degli Arverni. Anche in questo caso Vercingetorige attirò Cesare, sottraendosi a qualunque scontro in campo aperto. Il suo piano? Si basava innanzi tutto sulla speranza che gli Edui (i principali alleati di Roma, da almeno un secolo, quelli che il Senato aveva definito «fratelli dello stesso sangue», fratres consanguineique), avrebbero a loro volta disertato e si sarebbero lanciati sulle retrovie delle legioni. Il piano fallí di poco, fu questione di pochi giorni. Cesare riuscí a scampare alla trappola, lanciò un poderoso assalto, che gli costò importanti perdite. Ma riuscí a ritirarsi in tempo. Poco dopo gli Edui si unirono ufficialmente alla coalizione.


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Gufo Astrale
00lunedì 25 ottobre 2004 21:35
Alesia
Fu infine la volta di Alesia. La strategia era la medesima: dopo aver perso una battaglia che aveva visto scontrarsi le cavallerie dei Galli e dei Romani (o per essere piú esatti dei mercenari germanici assoldati da Cesare), Vercingetorige si «chiuse» dentro la città. Cesare diede inizio all’assedio e fece apprestare trincee lunghe piú di 20 chilometri! Tuttavia Vercingetorige aveva inviato i suoi cavalieri per riunire una forte armata, che viene a torto chiamata «di soccorso», dal momento che fu quella che avrebbe dovuto portare il colpo decisivo: i legionari, presi tra due fuochi (gli uomini che irrompevano da Alesia e quelli che venivano dall’esterno), avrebbero dovuto soccombere. Questo era l’esito previsto dal piano, che però fallí, per diverse ragioni: vi furono ritardi, malintesi tra i capi gallici, una malaccorta considerazione del terreno su cui lo scontro avrebbe avuto luogo. E, in piú, la forza delle legioni, il genio militare di Cesare e la sua… fortuna, quella dea che nel corso della storia ebbe a giocare un ruolo decisivo per piú d’un generale (raccontano che Napoleone, ogni qualvolta doveva assegnare un incarico importante a un ufficiale, chiedeva sempre: «Ha fortuna costui?»).

Oggi, come possiamo constatare, si tende a riabilitare Vercingetorige come condottiero. Fu capace di dare a Cesare filo da torcere, gl’impose di battere in ritirata e di ripiegare sulla provincia: nel momento in cui (in cuor suo) tendeva la trappola di Alesia, osservando il proconsole che si disponeva all’assedio, è probabile che abbia esultato. Lo stesso Cesare era verosimilmente consapevole che si andava incontro a una partita tutt’altro che decisa in partenza. Dall’insieme di queste circostanze e considerazioni emerge dunque un personaggio di sicuro interesse: legato a Roma e a Cesare, in seguito capace di rinnegare i trattati stipulati e i rapporti di amicizia, in grado di coinvolgere i Galli in una coalizione che aveva le carte per riuscire e che invece fallí. La sua avventura durò meno di un anno. Niente di paragonabile ai “grandi” nemici di Roma, quelli che fecero davvero tremare l’Urbe: Annibale, Mitridate, o perfino Sertorio o Giugurta.

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